17 Settembre 2022
Parole in Clessidra – Incontro con Paolo Fabrizio Iacuzzi, 15 settembre 2022 a Portoferraio. Evento organizzato dalla libreria MardiLibri di Silvia Boano, in collaborazione con Lorena Provenzali.
È ancora Mardilibri, Giovedì 15 settembre, ore 18, ad animare Portoferraio con un evento dedicato ai versi di Paolo Fabrizio Iacuzzi, poesie tratte da “Peste e guerra – la poesia non salverà la vita” (Interno poesia) e da “Consegnati al silenzio – ballata del bizzarro unico male” (Bompiani) introdotte dallo scrittore Angelo Airò Farulla.
Sulle note di Susanna Di Scala, al violino, e Gabriele Ulivelli alla chitarra, l’ormai celebre format di presentazione ideato da Silvia Boano, questa volta porta in città un Autore che, come scrive Airò Farulla: “Presenta una scrittura in versi autentica perché elementare, caricata d’eredità personali e collettive; una scrittura dove la natura umana s’espone come su tavola anatomica, mostrando le bizzarre infiltrazioni di contagi psichici e biologici attraverso un dettato poetico censurato, piano, concentrato, intimo e silenzioso, che tutti i suoi morti rigenera e suscita nel presente, in un profetico, paradossale, partecipato, crudele teatro letterario.”
Angelo Airò Farulla
GENERAZIONE AUTOMATICA
Note sulla scrittura di Paolo Fabrizio Iacuzzi
Se questo libro mi è dettato non so.
(PFI, Campo di sopravvivenza)
Materia inerte che si trasmuta in materia vivente; materia vivente che genera materia inerte che genera materia vivente: è questa l’alchemica catena telescopica – da ultima cena, attraverso la quale Iacuzzi (crocifisso all’oscuro naufragio dell’opera sua, scorticato anatomico bello come una vespa, che dal Tutto tutto il male e tutto il bene cuciti insieme riceve) s’incatena scendendo di parola in parola, di verso in verso, di componimento in componimento, di libro in libro, e poi ancora risalendo di libro in libro, di componimento in componimento, di verso in verso, di parola in parola, in un pozzo di San Patrizio che tutto incardina e trascende e occulta, indifferente architettura bifronte.
Vanno per la doppia elica del pozzo parole senza alcun destinatario (e forse anche immacolate, senza autore), sganciate da ogni attributo della significanza, come reliquie in groppa a un asino, dove le reliquie son gli infiniti riverberi della scrittura di Iacuzzi, e l’asino è il lettore portatore d’un testo inesauribile che non può non rimanere alieno, ogni volta ignoto, altro come il prossimo suo, imprevedibile nelle sue epifanie telluriche.
La traccia dell’aver scritto, ovvero dell’aver percorso un circuito contemporaneamente aperto e chiuso, appare leggibile come strato geologico sommoventesi, sommosso, incantato nei corsi e ricorsi dell’opera-stratificazione geologica; componimento unico, unico ecosistema ogni volta straziato e consolato; fotografia d’un moto incoercibile che i versi ha sbriciolato in trucioli crepuscolari, in cesure-punti-cicatrici, reso le parole e i sintagmi tessere di mosaico recuperate ai fanghi del tempo, alle distruzioni, alle rovine, alle infamie della vicenda umana, e rimontate sbieche. Qui si va avanti a frasi mozze come colpi di vanga che scavano la fossa, per la sepoltura e/o per la riesumazione, per tutte e due le cose insieme. Le catene s’inanellano in frattali. Sintagmi come carte di divinazione estratte l’una dopo l’altra, o a mazzi tagliati, in combinazione infausta. Parole come vagoni di un treno di tradotta che scorre lento nella pianura. Tutto è detto, penetrato, scavato, disseppellito, abbandonato e poi lasciato all’aria, dove ancora viene divorato, rivoltato, spostato. L’esaurimento non consuma. […]
L’enjambement frequente, che come un amo o un ago talvolta cuce i versi tra loro, e allarga la scrittura in semicerchi concentrici di pietra gettata nello stagno, porta invariabilmente il verso su cui s’infilza a morire subito nel verso successivo; così che la legatura di portamento è in realtà soltanto un altro modo di troncare, di cavare il punto di giunzione degli emistichi, tra le ossa del verso – o altro modo d’indicare un improvviso, ritornante mutismo costruttivo. Ma anche la cesura, per parte sua, non è altro che un altro modo martellante d’unione; punto fermo come chiodo ribattuto conficcantesi nella carne, bisturi piantato in capo, alla ricerca della pietra della pazzia; antico rugginoso chiodo che nel presente ancora scende e cuce il testo come un tessuto; cesura che si trasfigura poi nello iato tra i nomi di Paolo e di Fabrizio, e quindi paraidealistica cesura-continuità, questa, alimentata da una specie d’araldica familiare, dalla consunzione di ritratti votivi fatti in cera gettati tutti insieme nelle fiamme del camino: antenati, amici, persone, organismi: tutto distrutto per rifonderlo nel presepio, in infinita catena di cento figuranti. Questa poesia genera le persone, evoca i morti, sbriciola mummie. Nella fagocitosi biologico-letteraria (postletteraria e mai postumana), campo di lavoro forzato per le cavie-parole, il padre si fa padre di sua madre e di suo padre, come già la Vergine fu madre e figlia di Suo Figlio. Le schiere dei morti-ortensie, la testimonianza da martiri per la scienza, la moltitudine delle folle; assembramento creatore d’individualità, d’unicità creaturali che patiscono, smaniano, ribollono.
L’andamento del verso, pur nella varietà delle forme, è sempre lo stesso nel corso degli anni: è un computo, unicità di dettato, aura vitalis, procedimento che accompagna una vita intera e che altre vite trascina con sé e smembra e consuma. Il verso contribuisce a rilegare – e religiosamente consegnare al silenzio – l’epica di una spiraleggiante discendenza in cadenza magico-rituale, ripercorsa e masticata in una riciclante, penombrosa ruminatio monastica. È questo forse il cuore del Libro (d’ogni libro del Libro di Iacuzzi) concepito come tale, e non come “raccolta di poesie”; libro di vita, breviario che raccoglie i suoi elementi, il suo gregge disperso; che unisce, lega, sviscera e trascende. La cesura è legame, e viceversa; cauterio che piaga e sana.
La convergenza allora si fa struttura, brodo primordiale caotico, catabatico, catatonico, casuale e causale, innervato d’insistenze degenerative che tutto giuntano, tutto creano, tutto distruggono, tutto trasformano.
Consegnati al silenzio (2020) ha quasi una struttura musicale, posta dietro o davanti a sé non importa, se apparsa all’inizio o alla fine dell’opera; comunque concettuale anche se inconscia: la sezione Spettrali riuniti è un’ouverture che espone i temi che poi saranno declinati, coniugati, realizzati nell’opera; segue Cornici concentriche, titolo che, pur essendo a tutti gli effetti espressivo, mantiene un’informazione compositiva (la sua coda è il lirico e cullante corsivo di Trascrizione inversa); stessa cosa si può dire per Cartografia assiale. Ci sono poi poesie che son riscrittura l’una dell’altra, come variazione o ripresa di sezioni, derivazioni di matrici bouleziane non astratte. C’è il sonetto: Il letto pieno di mio nonno; e poi un altro sonetto: Il letto pieno di mio padre. Si chiudono entrambi con un riferimento alla salvezza. Al loro interno è all’opera un lavorìo d’elementi specifici non speculare, ma automaticamente dettato come da un destino di trasmissione ereditaria passante da sonetto a sonetto, da padre a padre; e poi a ritroso: quasi un canone cancrizzante che ossessivamente dice: ma fin est mon commencement et mon commencement ma fin.
Portoferraio, 17 settembre 2022
Stimmate di San Francesco d’Assisi