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«Fare il bene in sogni mobili, gettare gli incubi in cenere equivale a riassumere in sentenze quanto mai appropriate due dei precipui (ed “eterni”) compiti umani della poesia. Prendendo le mosse da questi due presupposti, lucidamente enunciati in epoca leopardiana dall’antenato Giobatta Iacuzzi, il poeta Paolo Fabrizio – una delle voci più originali nel panorama attuale della nostra poesia – s’impegna a bagnare di parole la lucente meraviglia del Ceppo. E riesce alla perfezione nel suo intento, in grazia di una scrittura a un tempo sorvegliata e immaginifica: tra il comandamento di un “Vestire gli ignudi”, a un tempo biblico e pirandelliano, e la profezia del pellegrinaggio a una fonte d’acqua miracolosa nascosta nell’episodio “Dar da bere agli assetati”. Tanto che il nucleo incandescente di questo efficacissimo testo di Paolo Fabrizio Iacuzzi oscilla tra il tono della bruciante domanda esistenziale e la produzione di metafore a pieno titolo conoscitive.»
Alberto Bertoni
«Un infinito gioco di riflessi: l’arte che si fa vita, la vita che si fa arte; il vedersi ritratti nei propri avi, nei genitori, nei tableaux; il riflettersi nelle opere di misericordia nei due ruoli di chi offre e di chi riceve, guaritori e malati al tempo stesso. E il senso di straniamento, nel passaggio continuo dal discorso sull’opera d’arte al discorso sulla vita: le badanti, le polo a righe, i ragazzi e i padri, e quella parola ricorrente: “babbo”. C’è molto ritmo, quasi a voler tenere il tempo avviato da Giobatta e, allo stesso tempo, una contemporaneità rap, quella del dire il proprio nome nel testo, forse come quel segno lasciato sulla pietra dall’antenato del poeta. Poi si arriva agli assetati e ci si rende conto che si sta eseguendo una salmodia, quasi una preghiera, ma laica, terrena, umana, mortale.»
Ignazio Tarantino
Vent’anni fa, nel Fregio e lo Sfregio del Ceppo, prefazione all’antologia che raccoglieva i primi 40 anni di storia del Premio Letterario Internazionale Ceppo Pistoia (Il tempo del Ceppo. Fare letteratura: il dialogo fra racconto, poesia e critica, Giunti Editore 1997), accennai a questo misfatto: «Uno Iacuzzi, forse il primo vandalo che Pistoia annoveri nelle sue cronache, scolpì nome e cognome su una colonna che sostiene il portico dello Spedale del Ceppo: “Giobatta Iacuzzi 1816”». Proprio sopra quella colonna è collocato lo stemma del Ceppo e del Premio Ceppo, e ancora più in alto tra Accogliere i pellegrini e Visitare gli infermi c’è la testa bifronte della Prudenza. Nel frattempo sono diventato presidente della Giuria letteraria e direttore artistico dell’Accademia Pistoiese del Ceppo, e la Prudenza col volto bifronte è il simbolo de “Il tempo del Ceppo”, la manifestazione culturale collegata al Premio. In questi anni ho anche scritto scritto libri in versi come Magnificat (I Quaderni del Battello Ebbro 1996), Jacquerie 2001, Patricidio 2004, Rosso degli affetti 2009 (editi da Aragno); fino al prossimo, Il bene cucito al bene cucito al bene. Da tanto tempo quindi la figura di Giobatta mi ha posto sotto assedio, e Pietra della Pazzia. Il segreto è nella testa racconta in versi l’opera di Santi Buglione e Filippo di Lorenzo Paladini, ovvero il Fregio dell’ex Spedale del Ceppo, prossima casa della cultura in vista di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017.
Chi era Giobatta? Perché scrisse il suo nome proprio lì? Che significato hanno gli episodi a partire dalle teste dei protagonisti e dei figuranti? Perché Buglione non le ha invetriate ma le ha lasciate nella più nuda espressività, fino a che, nell’ultimo ciclo Dar da bere agli assetati (in realtà, è il primo, perché il Fregio sembra leggersi da destra verso sinistra), Paladini la fa balzare agli occhi in tutta la sua lancinante e drammatica potenza? Giobatta, esattamente a 200 anni di distanza, sogna il Ceppo come una “opera pistoria”, un’opera di pasticceria, alla maniera del Satyricon di Petronio: vede biscotti glassati al posto delle formelle di ceramica invetriata. Sfregia così per la seconda volta quella bellezza, profetizzando la Storia del Novecento. Il segreto di quella “glassa” si è perso per molto tempo; né sono valsi a niente i tentativi dei “piri” pistoiesi di rompere le teste dei personaggi: come nella prima figura che appare nel racconto Vestire gli ignudi, che forse non ha più la testa proprio perché un pazzo glie l’ha staccata. Ma è il racconto Visitare gli infermi il cuore dell’enigma: che cosa cerca col bisturi (termine derivato dal nome di Pistoia, in latino Pistorium) quel medico che scrive incidendo la testa di quel malato? Forse cerca la “pietra” che nel Medioevo si credeva responsabile della “Pazzia”? O è forse Pistoia, la pazza, che in quel gesto si rispecchia? E chi è quell’infermo che si agita? Forse ci è vicino più di quanto immaginiamo?
Prendendo le mosse dal sonetto barocco dello “pseudo-Giobatta”, passando dalle 21 poesie e dalle liquide, tracotanti fotografie di Niccolò Begliomini, tutto è menzogna in questo racconto dei racconti: gli eventi dell’arte e gli eventi della vita si intrecciano. La Storia del Novecento si fonde con una storia familiare, fatta di segregazioni e di prigionie, attraverso le quali le opere di misericordia diventano un teatro per animare, fra reale e immaginario, l’interrogazione del male: nel ricordo dell’eccidio nazista delle vittime del Padule di Fucecchio e nel pensiero rivolto all’opera dell’artista Antonio Spagnulo, che ora presidia il luogo di quella efferata strage. Se il bene si conquista “a pezzi e a bocconi” cucendo figura a figura, come se scrivere di se stessi equivalesse a cibarsi degli altri, alla fine la meditazione sull’“opera di Pistoia”, capitale del coraggio e della paura, altro non diventa che la riflessione su un’idea stessa di civiltà che finisce nella polvere: giubileo della vanità delle vanità.
Paolo Fabrizio Iacuzzi