È nata a Lucca e vive tra Firenze e Lucignana, un paese delle Lucchesia. Scrive di poesia su quotidiani e riviste. Altri libri pubblicati sono: La repubblica contadina (City Lights Italia, 1997), Non in mio nome (Marietti, 2004). Ha curato Costellazioni italiane 1945-1999 (Le Lettere, 1999), Poeti e scrittori contro la pena di morte (Le Lettere, 2001) e il Dizionario della libertà (Passigli, 2002). Il poema Pianto sulla distruzione di Beslan, con musiche di Haydn, è stato messo in scena con l’Orchestra Regionale della Toscana.
Alba Donati vince il Premio Selezione Ceppo 2015 con Idillio con cagnolino (Fazi 2014) per aver pensato una poesia tra epica e apologo, fiaba e cronaca medievale, denuncia dei misfatti della Storia e stupore ineffabile davanti al magico potere della parola. Ma occorre subito diffidare della Donati. Della sua poesia che sembra facile e ammiccare al lettore. La luce è la vera protagonista del libro, l’idea che appare nell’idillio, una “piccola idea chiara”, il quasi-nulla di un attimo che mette a repentaglio tutto e riscrive la Storia violenta degli uomini con la storia paziente, cucita da madre a figlia-madre a figlia. Così, dallo Steinhoff a Beslan, il canto funebre può alla fine risultare, fra timore e tremore, dolore e orrore, un sibillino ma potente invito alla gioia.
Il ritorno al tempo della madre si declina nelle quattro sezioni di un romanzo in versi – una tragi-commedia, una fiaba drammatica, l’elegia di un panteon, il coro di una ‘cronica’ medievale – nel quale il mondo viene rimesso alla luce unendo le generazioni, gli amici e i maestri (i critici-scrittori-saggisti), la storia familiare e quella degli altri. Al centro c’è un teatro degli affetti, dove i device digitali (tv, smartphone ecc) non vengono demonizzati ma interrogati per esplorare una verità diversa e scomoda, che si esprime in frammenti e balbettii di senso, fibrillazioni, aritmie e batticuori. Siamo di fronte a un libro che propone al lettore una nuova educazione emozionale alla vita, dove l’eterna lotta fra Bene e Male chiama a raccolta i vivi e i morti, creando un inter-regno dove una nuova comunità è sommersa ma è sempre presente.
Con una furente ma commossa pedagogia degli umili e degli ultimi la poesia di Alba Donati è capace di scagliarsi contro i mali dei Capitalismi e degli Olocausti, perché la Storia non è maestra di niente. Città e campagna, civiltà contadina e postindustriale, tempo milleniario e secolare sono in continua frizione, dove il tragico è sempre il rovescio dell’idillio. Il Bene si dà nella luce dell’epifania e dell’agnizione estatica, nello stare inermi in uno spazio intermedio fra la totalità e il nulla. E gli eroi non appartengono più solo alla Terra o al Cielo ma sono già postumi a se stessi, sono gli ‘oltre-eroi’ che hanno imparato “a stare e a volare, / a essere di bronzo e d’aria allo stesso tempo”.
È nato nel 1961 a Sortino, in provincia di Siracusa, il paese dei muli nella Cavalleria Rusticana. Vive a Monza ma insegna a Milano nella scuola primaria e si occupa di teatro e scrittura per le persone in formazione. Altri libri di poesia pubblicati sono: Giornata (La Vita Felice, 2003), Dolore della casa (Il Ponte del Sale, 2006), Nella Storia (Alsara, 2009).
Sebastiano Aglieco vince il Premio Selezione Ceppo 2015 con Compitu re vivi (Il Ponte del Sale, 2013) perché attraverso archetipi potenti – i bambini, il sangue, i morti, il padre – compie il suo grande viaggio nelle profondità dell’anima. Tinte accese e vampate di colore percorrono le pagine di questo libro. Condanna e salvezza, patto e tradimento, innocenza e scandalo: gli opposti combattono una lotta mortale e ci immergono in un mondo abitato dal mistero, un purgatorio dove “tutto” viene espiato. Un purgatorio che non è quello dantesco e non conosce le penombre dei regni sotterrerai. È un purgatorio terrestre e mediterraneo, affollato di corpi, piante e animali vivissimi e percorsa da contrasti feroci: sole implacabile e buio vertiginoso, colpa estrema e puro canto, colpa “che può redimersi solo nel canto”. E forse è proprio questo difficile canto il “compitu re vivi”, il dovere dei vivi.
Non è una poesia dell’essere e nemmeno una poesia del divenire. È una poesia dell’ “accadere”. Epifanie, apparizioni, fantasmi, vecchi, bambini, figure che all’improvviso si manifestano. Domina il senso del pericolo e la sua presenza fisica (come una belva che respira nell’angolo a sinistra dell’armadio: “na bbestia raggiàta rispiràva / supra u cantùni a mmànca ra muàrra”), ma anche il senso di una rivelazione imminente. Gli animali stessi vengono sentiti come creature dotate di sapienza e hanno una duplice funzione: quella di sbarrare la via o quella di indicarla. Dipende da come ci rivolgiamo a loro, dalla lingua in cui li interroghiamo.
Ed ecco emergere così il motivo centrale di questa poesia, che è “la potenza del nome”. Il nome può divorare (“i nnomi s’ammùccunu cu chiama”) e pretende da noi un’estrema precisione. Il bene è questa parola “precisata”: da una parte l’esatta pronuncia del dettato e dall’altra l’esatta trascrizione. La poesia stessa avviene in un regime di massima sorveglianza. Questa forse – ci ripete Aglieco, che è maestro di scuola elementare e del suo lavoro ha fatto un sacro dovere – è la cosa più importante che dobbiamo insegnare ai bambini e alle persone amate. E ripetere senza sosta a noi stessi.
Franco Buffoni è nato a Gallarate nel 1948, vive a Roma. Saggista (L’ipotesi di Malin, Marcos y Marcos, 2007), narratore e traduttore (Poeti romantici inglesi, Mondadori 2005), ha insegnato per trent’anni letteratura inglese e letteratura comparata. Ha fondato e dirige la rivista “Testo a fronte”. Come poeta ha esordito nel 1978, presentato da Giovanni Raboni su “Paragone”. Il suo lavoro poetico è stato raccolto in Poesie 1975-2012 (Mondadori 2012). Per saperne di più: www.francobuffoni.it
Franco Buffoni vince il Premio Selezione Ceppo 2015 con il libro Jucci (Mondadori 2014) per l’intreccio, riuscito alla perfezione, dell’Amore e della Morte, tra le linee dominanti in tutta la poesia occidentale: un intreccio illuminato dalla grazia di una scrittura poetica a un tempo morbida e esatta, colloquiale ma protesa sempre a improvvise accensioni metafisiche, fondata su un’esperienza anche microfisica del quotidiano e consapevole di come – in armonia magari col biblico Cantico dei Cantici – “ci si può allontanare dalla fonte”. Il pregio maggiore del libro, di rara compattezza strutturale, così da far pensare a un vero e proprio romanzo in versi, risiede non tanto nella capacità di tratteggiare il Bildungsroman di due persone in formazione (esistenziale, sensoriale, psicologica), quanto proprio nella capacità della parola poetica di render concreto questo autentico processo conoscitivo.
Il tema del libro è paradossale, perché – pur prodotto da un autore che da tempo ha fatto outing della propria omosessualità, eleggendola non di rado a topos della sua scrittura – rappresenta l’amore giovanile (ma sviluppato in tutte le fasi e le dimensioni possibili) dell’Io narrante per un soggetto femminile, troppo presto scomparso. Il nome di Proust, qui, può essere pronunciato con piena convinzione ed essere anzi eletto a modello di costruzione dell’esperienza, fra percezioni profonde che producono epifanie sensoriali non meno che intellettuali (e alla fine etiche), “geometrie analitiche” del sentimento o le mirabili arti “della respirazione trattenuta”.
È sempre un grande sollievo, quando si rileva lo stato di grazia di un poeta: se ne illumina la sua storia autoriale, certo, ma ne traggono grande giovamento anche la lingua, la sensibilità, la cognizione del mondo che appartengono alla comunità – non importa se piccola o grande – dei suoi lettori. Dopo quarant’anni di scrittura in versi (cui si è aggiunto da sempre un esimio lavoro di traduttore, soprattutto dall’inglese e dal francese), Franco Buffoni – lombardo trasferito da anni a Roma, classe 1948 – è pervenuto al suo capolavoro, che il Ceppo intende riconoscere e premiare.