Arundhathi Subramaniam è nata nel 1967 a Bombay da famiglia originaria del Tamil Nadu. Ex danzatrice di Bharatha Nayam, è giornalista freelance e critica di danza, arte e spettacolo per diverse testate. Ha diretto a Bombay il progetto di interazione fra le arti denominato «Chauraha» presso il Centro Nazionale per le Arti Performative. Come poeta, ha pubblicato su numerose riviste e sulle pagine di poesia di “The Independent”. Cura la sezione indiana del portale di poesia internazionale “Poetry International Web” ed è anche traduttrice di testi teatrali dall’hindi. La sua prima raccolta On Cleaning Bookshelves è uscita nel 2001 con Allied Publishers di Mumbai, seguita da Where I Live. Le sue raccolte sono state pubblicate in Inghilterra nel 2009 in un’antologia per la prestigiosa casa editrice Bloodaxe. Un’altra raccolta, When God is a Traveller è uscita alla fine del 2014 per Bloodaxe. Ha curato per Penguin India un’antologia di scritti sul pellegrinaggio: Pilgrim’s India. Suoi testi sono contenuti nell’antologia di poesia femminile indiana L’india dell’anima, a cura di Andrea Sirotti (Le Lettere, 2000).
Arundhathi Subramaniam vince il Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari perché scrive una poesia fatta di dolore e di ebbrezza, terrore e verità, idea e sentimento, precisione e passione, astrazione e concretezza. È un viaggio della mente e del cuore alla ricerca di uno spirito che è sempre altrove, dappertutto e in nessun luogo. Per fare questo, con la lingua inglese esplora – come lei stessa scrive nella “Piero Bigongiari Lecture” – i grandi «canyon della memoria culturale» indiana, fra la spiritualità yoga e buddista e l’attualità di una Bombay dove Arundhathi si sente a casa e, al tempo stesso, strappata via in esilio.
La lingua della sua poesia parte da da una potenza magica, misteriosa e «ferina» ma è rivolta a «origliare», dentro gli spazi del silenzio, i vuoti del senso che s’aprono nell’interiorità di una donna che ha smarrito ogni certezza ma non la sua inesausta, incessante volontà di comprensione del mondo. Il suo non è un canto pieno ma una «voce sussurrata», capace tanto di dare ascolto ai desideri repressi delle donne, quanto di indignarsi per l’abuso di potere delle élite sociali e culturali, tanto di scagliarsi contro un’educazione tradizionale che vorrebbe le ragazze non artefici del proprio destino, quanto di opporsi con forza ai pregiudizi tutti occidentali che vorrebbero il poeta indiano farsi portatore di una cultura incasellata entro i confini di comodi stereotipi.
La poesia di Arundhathi Subramaniam – poeta e intellettuale, critico e curatore d’arte, danzatrice e coreografa, editor e saggista – è impregnata tanto della spiritualità e del mito indiani, quanto di quella letteratura che fa della “disobbedienza al tema» (per usare proprio le parole di Bigongiari), al “tema indiano” la sua vera ragion d’essere. Seguendo l’amore per poeti come Keats ed Eliot, Herbert e Achmatova, ma anche per Basho e il grande poeta Ramanujan (ancora da noi sconosciuto), per le Upanishad e le memorie spirituali dei grandi viaggiatori dell’India, la poesia si propone come una «coreografia verbale», perché abbatte il confine fra la cultura alta e popolare, proponendo un’animazione del pensiero in grado di rinarrare in versi situazioni precise eppure straniate, facendoci avvertire i crepitii e i crolli del senso comune.